Consiglio nazionale forense - Circolare C-22/2006
Osservazioni del Cnf sull’interpretazione del decreto Bersani
4 settembre 2006
Osservazioni sulla interpretazione e applicazione del Dl 223/06 (in G.U. n. 153 del 4 luglio 2006),coordinato con la legge 248/06 (in G.U. n. 186 dell’11 agosto 2006 – Suppl. Ord. n. 183) recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale.».
SOMMARIO
2. Norme legislative e norme deontologiche
4. Disciplina delle tariffe professionali
5. Patto sui compensi e patto di quota lite
6. Esecutività e parere di congruità
8. Forme associative dell’attività professionale
La nuova disciplina – al di là delle sue connotazioni di politica istituzionale e di politica del diritto, oltre che di carattere strutturale che investono direttamente la nostra professione – involge aspetti civilistici e aspetti deontologici riguardanti tra l’altro la determinazione del compenso professionale, il patto di quota lite, la pubblicità informativa, le associazioni e le società professionali.
La nuova disciplina dovrebbe avere natura transitoria, tenendo conto di tre fattori:
(i) le prossime pronunce della Corte di Giustizia riguardante la legittimità delle tariffe obbligatorie quale compenso per l’attività stragiudiziale forense e la legittimità del divieto della libera negoziazione del compenso professionale forense;
(ii) l’eventuale pronuncia della Corte costituzionale, ove essa fosse investita della questione di costituzionalità dell’articolo 1 della l. di conversione e dell’articolo 2 del decreto legge in epigrafe;
(iii) l’esito del processo di riforma della disciplina forense, che si avvierà con la ripresa autunnale dinanzi alle Camere,con gli esponenti governativi , anche sulla base degli esiti del Congresso di Roma.
Poiché è lecito ritenere che i tempi delle vicende sub (i),(ii),(iii) saranno tendenzialmente lunghi, occorre riflettere sulle questioni interpretative e applicative della disciplina entrata in vigore nel testo convertito.
La premessa dell’analisi muove da un presupposto fondamentale: la coesistenza di norme di legge e di norme deontologiche; le norme di legge possono abrogare norme deontologiche (come quelle forensi) aventi natura di norme primarie, ma di origine consuetudinaria; in ogni caso, anche se si potesse sostenere la loro equiparazione totale, si dovrebbe applicare il principio della posteriorità della nuova disciplina rispetto alla normativa deontologica ( che data, nella sua ultima versione, dal 27 gennaio 2006). Le due categorie di norme non sono però tra loro sovrapponibili, in quanto la legge ordinaria, come quella in esame, ha effetti erga omnes, mentre le norme deontologiche riguardano soltanto i soggetti esercenti l’attività professionale forense. In più, le norme deontologiche, per loro natura, possono essere più restrittive delle norme ordinarie, in quanto riflettono valori etici il cui ambito di applicazione può essere più ampio di quello della norma ordinaria. Tale distinzione – come si dirà tra poco - vale anche per gli effetti civilistici degli accordi conclusi con il cliente e per gli effetti deontologici di tali accordi, che potrebbero essere divergenti.
3. Adeguamento dei codici deontologici alla nuova disciplina Il rapporto tra i due ordini di norme è riflesso dall’articolo 2 del Dl, come convertito, il quale dispone, al comma 3, che «Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali, entro il 1 gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle». Poiché nel comma si fa riferimento alle norme (dentologiche) in contrasto con quanto previsto al comma 1 – di cui si dirà – e si prevede che tali norme siano in ogni caso nulle a partire dal 1 gennaio 2007, fino a tale data le regole contenute nel nostro codice si debbono ritenere vigenti e idonee a produrre effetto (ovviamente, di natura deontologica). Gli studiosi di diritto costituzionale non hanno dubbi sul fatto che la nullità di pattuizioni concluse a seguito di norme dichiarate abrogate non immediatamente, ma susseguentemente ad una determinata data, sia rispondente ai canoni di corretta redazione legislativa. Pertanto, sia che la nullità sia riferita :
- alle regole deontologiche considerate di natura pattizia ( e non quali norme consuetudinarie);
- alla loro vera e propria abrogazione, se si trattasse di norme consuetudinarie;
- alle pattuizioni concluse tra i privati fondate sulle norme qualificate come nulle ( a decorrere da una certa data), gli effetti dell’articolo 2 del decreto come convertito non si produrranno sul codice dentologico se non a decorrere dal 1 gennaio 2007. In virtù del principio tempus regit actum gli accordi tra il professionista e il cliente sono validi e producono effetti ai fini civilistici, ma dal punto di vista deontologico sono assoggettati al codice forense vigente fino al 1 gennaio 2007, e dopo tale data alla versione del codice che (ove la legge in esame sia ancora vigente) risulterà dal suo adeguamento ad essa. Va da sé che, ove il codice deontologico forense fosse modificato anteriormente a tale data, quanto sopra deve essere inteso come anticipato alla data di entrata in vigore del codice deotologico forense emendato. Più oltre si esamineranno le fattispecie più ricorrenti che riguardano concretamente la distinzione tra effetti civilistici ed effetti deontologici della normativa in esame.
Considerati i presupposti di cui sopra, ne deriva che gli accordi relativi ai compensi professionali dal punto di vista civilistico possono essere svincolati dalle tariffe fisse o minime (articolo 2 comma 1 lettera a)), mentre rimangono in vigore le tariffe massime. Il fatto che le tariffe minime non siano più “obbligatorie” non esclude che – sempre civilisticamente parlando – le parti contraenti possano concludere un accordo con riferimento alle tariffe come previste dal Dm. Tuttavia, nel caso in cui l’avvocato concluda patti che prevedano un compenso inferiore al minimo tariffario, pur essendo il patto legittimo civilisticamente, esso può risultare in contrasto con gli articoli 5 e 43 comma 2 del codice deontologico in quanto il compenso irrisorio,non adeguato, al di sotto della soglia ritenuta minima, lede la dignità dell’avvocato e si discosta dall’articolo 36 Costituzione. Poiché la nuova disciplina si occupa soltanto delle tariffe fisse o minime, restano in vigore le disposizioni che riguardano le tariffe massime (con le ipotesi in cui esse possono essere derogate in aumento). Anche in questo caso le deroghe debbono essere effettuate mediante patto scritto e non possono implicare un compenso sproporzionato. In ogni caso il Dm è ancora in vigore per le tariffe ai fini della liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali sia in caso di liquidazione giudiziale sia in caso di gratuito patrocinio, ai sensi dell’articolo 2 comma2 del decreto così come convertito. L’avvocato dunque può chiedere che la controparte soccombente sia tenuta a pagare secondo tariffa ( ma non secondo gli accordi effettuati con il cliente, di cui si dirà tra poco). Ai sensi dell’articolo 2 comma1 lettera a) del decreto convertito è possibile parametrare il compenso al “raggiungimento degli obiettivi perseguiti”. La formula un po’ ellittica dovrebbe significare che all’avvocato si può riconoscere da parte del cliente un premio, proporzionato ai risultati conseguiti. L’articolo 45 comma 1 consente un aumento del compenso, giustificato dal risultato conseguito e in limiti ragionevoli. Pertanto la formula legislativa può considerarsi omologa a quella del codice deontologico. Entro il 1 gennaio 2007 dovrà essere modificato il disposto dell’articolo 43 comma 5 del codice dentologico, essendo già ora legittimo civilisticamente concordare onorari forfettari per le prestazioni continuative in caso diverso dalla consulenza e dall’assistenza stragiudiziale. In ogni caso, lo si ripete, anche dopo il 1 gennaio 2007, sarà possibile sindacare il comportamento deontologico, ai sensi degli articoli 5 e 43 comma2 del codice , se il compenso sia sproporzionato all’impegno.
La nuova disciplina aggiunge però un comma all’articolo 2 cit. che riguarda ancora i compensi. Il testo ora dispone che il terzo comma dell’articolo 2233 Cc sia sostituito dal seguente: «Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali». Dal punto di vista civilistico, il patto è valido se rispetta l’onere della forma scritta; esso può avere effetti solo tra le parti; non può essere opposto ai terzi, neppure in giudizio, non quindi nei confronti della controparte del cliente, né può essere richiesto al giudice, in caso di liquidazione del compenso e delle spese, che si attenga al patto. Diverso è il discorso tra avvocato e cliente: l’avvocato può chiedere al giudice di liquidare il proprio compenso secondo quanto stabilito nel patto (che, civilisticamente parlando, è valido) ma come sopra si è detto il suo comportamento può essere segnalato all’ Ordine di riferimento perché ne controlli la correttezza deontologica con riguardo alla proporzionalità. del compenso rispetto all’attività prestata. La disposizione in esame è stata intesa anche come tale da legittimare il patto di quota lite, dal momento che essa ha sostituito il testo dell’articolo 2233 previgente del Cc. L’abrogazione non è effettuata nel senso di sopprimere direttamente ed espressamente il divieto del patto di quota lite; la disposizione si riferisce infatti in generale ai patti sui compensi. Tuttavia, la sostituzione implica che viene meno il divieto esplicito e preciso concernente i patti “relativi a beni che formano oggetto della controversia”. Pertanto, ove dovesse maturare una interpretazione permissiva, occorre segnalare che la nuova disciplina non ha abrogato un’altra disposizione del codice civile, l’articolo 1261 che fa divieto ( tra gli altri soggetti, anche ) ad avvocati e patrocinatori di «rendersi cessionari di diritti sui quali à sorta contestazione davanti all’autorità giudiziaria (…) nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni,sotto pena di nullità e dei danni». I patti con cui si cedono diritti dal cliente all’avvocato suo difensore sono dunque nulli e rimangono tali anche a seguito della entrata in vigore della nuova disciplina. Per verificare – civilisticamente – la validità di un patto concluso tra avvocato e cliente il cui oggetto sia il compenso professionale sotto forma di patto di quota lite, occorre distinguere caso da caso. Si possono infatti distinguere:
(i) il patto di quota lite nella configurazione frutto di una lettura estensiva dell’ articolo 2233, comma 3, Cc e cioè come patto col quale si stabilisce un compenso correlato al risultato pratico dell’attività svolta e comunque in ragione di una percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi; un patto di tal natura deve ritenersi ora civilisticamente legittimo giusta la previsione del comma 1, lettera a) dell’articolo 2 della legge di conversione;
(ii) il patto di quota lite nella configurazione definibile come classica cioè quella anche semanticamente coerente con il divieto ex articolo 2233, comma 3, Cc, nel testo previgente: questo tipo di patto deve ritenersi tuttora civilisticamente vietato e nullo ex articolo 1418 Cc nella misura in cui il suo assetto concreto replica la previsione dell’articolo 1261 Cc e cioè quante volte esso realizzi, in via diretta o indiretta, la cessione del credito o del bene litigioso ; Sul piano deontologico, tuttavia :
- per effetto di quanto si è detto sub (i) la norma dell’articolo 45 del codice deontologico forense va adeguata – ex articolo 2, comma 3, legge cit. – limitatamente a quella sua parte in cui si vieta la pattuizione di un compenso in percentuale rapportata al valore della lite;
- per effetto di quanto detto sub (ii) la norma dell’articolo 45 del codice deontologico forense non va adeguata non essendo in questo caso la configurazione del patto di quota lite ricompresa nel novero di quelle rese lecite dal comma 1 dell’articolo 2 legge cit.; essa andrà semmai specificata nel senso che l’illiceità deontologica del patto sussiste a misura che esso realizzi, direttamente o indirettamente, la cessione di un credito o un bene litigioso.
Se il patto tra avvocato e cliente è effettuato in forma scritta, si applica comunque l’articolo 633 comma1 Cpc, secondo il quale «Su domanda di chi è creditore di una somma liquida di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o di chi ha diritto alla consegna di una cosa mobile determinata, il giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna: 1) se del diritto fatto valere si dà prova scritta». Il disposto del n. 2 («se il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo»), in risposta a quanti hanno sollevato dubbi sulla sua avvenuta abrogazione, rimane invariato: infatti non vi è alcun riferimento e tanto meno abrogazione esplicita nel testo normativo in commento. Il parere di congruità può essere sempre fatto dall’ Ordine, tenendo conto quale parametro delle tariffe in vigore ai fini della liquidazione giudiziale. La valutazione di congruità rimane dunque necessaria a fini esecutivi e posto che non vi sia accordo scritto. D’altra parte, il disposto dell’articolo 633 Cpc prevede una particolare procedura esecutiva per le prestazioni effettuate in occasione di un processo e per gli avvocati in quanto tali per l’esercizio professionale prestato. Non è vietato l’uso delle tariffe quale parametro di riferimento. E quindi l’Ordine richiesto del parere di congruità può fare riferimento alle tariffe. Se la tariffa è al di sotto del minimo, l’Ordine distinguerà tra la congruità agli effetti civilisitici, valutando il compenso alla luce dell’attività prestata, ma valuterà anche il comportamento deontologico dell’avvocato, come sopra si è precisato.
La cornice entro la quale le altre disposizioni del decreto convertito che riguardano la disciplina della professione forense si debbono leggere dal punto di vista deontologico è sempre data dall’articolo 5 del codice (probità, dignità e decoro), dall’articolo 6 (lealtà e correttezza) dall’articolo 9 (segretezza e riservatezza),dall’articolo 17 (informazioni sull’attività del professionista), dall’articolo 17 bis (mezzi di informazione consentiti), dall’articolo 18 (rapporti con la stampa) dall’articolo 19 (accaparramento di clientela) e dall’articolo 20 (uso di espressioni sconvenienti od offensive). Ora, letto alla luce di queste disposizioni , il disposto dell’articolo 2 comma1 lettera b) del Dl come convertito non introduce novità di particolare momento. Ed infatti, esso rimuove un divieto (anche parziale) i cui contenuti per molti aspetti già sono stati soppressi nel codice deontologico vigente. Come si legge nel testo dell’articolo 2 comma,1 lettera b) «sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono (…) il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine».
Innanzitutto preme sottolineare che le regole deontologiche in contrasto con il Dl rimangono in vigore almeno fino al 1 gennaio 2007, termine entro il quale dovranno essere adattate alle nuove previsioni legislative, in quanto la rimozione immediata del divieto riguarda regole legislative e regolamentari, ma non le norme deontologiche, qualunque natura esse abbiano. In secondo luogo, delle disposizioni deontologiche sopra richiamate (articoli 5,6,9,17-20) nessuna appare in contrasto con il disposto indicato. Già gli articoli 17 e 17bis consentono l’ informazione (che nel Dl prende il nome di pubblicità informativa).
Ora è appena il caso di precisare che nel gergo del marketing la pubblicità informativa riguarda due aspetti che possono investire l’esercizio dell’ attività forense: la pubblicità istituzionale, inerente al soggetto che la promuove, e la pubblicità che ha lo scopo di informare il pubblico delle caratteristiche del servizio prestato. E comunque usandosi l’espressione “pubblicità” ci si riferisce alla disciplina prevista dalla legge 287/90, e succ. integrazioni, che sanziona il messaggio ingannevole. Quanto alla pubblicità istituzionale, già ora è consentito esibire i titoli che sono appropriati all’esercizio professionale, sempreché non siano decettivi.
Si possono esibire i diplomi di specializzazione (in quanto le “specializzazioni” di cui parla il Dl debbono essere riferite a qualificazioni professionali ottenute mediante regolare procedura, là dove le singole professioni lo prevedano), mentre non si può utilizzare l’espressione “specializzazione” per indicare i settori e le materie di attività prevalente; occorre indicare allora non il termine “specializzazione”, ma altro termine non decettivo. Vi è quindi perfetta coincidenza tra questo aspetto del Dl e il codice deontologico. Quanto alle “caratteristiche del servizio offerto” è difficile pensare a messaggi informativi che non facciano riferimento alla diligenza professionale. è lo stesso legislatore che sollecita gli Ordini a vigilare perché il messaggio indichi con trasparenza e veridicità “il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni”.
A questo proposito assumono rilievo deontologico le regole già richiamate a proposito della appropriata retribuzione dell’avvocato. Saranno perciò perseguibili deontologicamente gli avvocati che espliciteranno, per l’attività stragiudiziale, una misura del corrispettivo non adeguata alla dignità professionale e all’entità del lavoro svolto, e,quanto alla attività giudiziale, se la valutazione è fatta à forfait per una o più cause, oltre al controllo sulla adeguatezza, si potrà effettuare il controllo sulla veridicità e trasparenza, qualora il cliente non sia informato sui gradi della causa, sulle complicazioni processuali, sulle fase istruttoria, e così via. Il Dl in esame non fa cenno né alla pubblicità comparativa ( che pure si era affacciata in precedenti progetti di riforma delle professioni) né ai mezzi pubblicitari. Pertanto, restano confermate le disposizioni del codice deontologico che vietano la pubblicità comparativa e quelle che prevedono restrizioni in materia di mezzi utilizzati.
Non è ammesso l’uso di mezzi disdicevoli, che contrastino con gli articoli 5, 17,17bis, 18, 19, come gli organi di stampa, la radio e la televisione, l’affissione di cartelli negli esercizi commerciali, nei luoghi pubblici, etc.. Particolare attenzione dovrà essere prestata dagli Ordini all’utilizzazione di Internet,dove già ora, come in una selvaggia prateria, circolano messaggi di ogni tipo, altamente reprensibili, quali l’associazione di nomi di professionisti al server, oppure l’uso di informazioni sulla legislazione e sulla giurisprudenza per farsi pubblicità, etc.. Si tratta – per dirlo con le stesse parole del testo in esame – di pubblicità non informativa, non trasparente e quindi non ammissibile. Non è neppure ammessa la pubblicità che si ottiene mediante insegne che non rispondano ai criteri di correttezza e dignità. Anche i luoghi ove si svolge la professione (nulla dicendo al riguardo il decreto) possono essere sindacati deontologicamente: l’avvocato non può esercitare in un supermercato, in un esercizio commerciale aperto al pubblico sulla pubblica via, etc..
Resta in ogni caso in vigore il divieto di accaparramento della clientela.
Anche il disposto dell’articolo 2 comma1 lettera c) può essere letto in bonam partem. Il legislatore ha rimosso «il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità». Il limite di esclusività stabilito dalla norma non può essere inteso nel senso che la società o l’associazione possa esercitare solo nell’ambito di un singolo settore di attività professionale, ma piuttosto nel senso che la società o l’associazione non possa esercitare un’attività diversa da quella, più generica, della prestazione di servizi professionali.
L’attività può ricomprendere l’intero ambito delle diverse discipline di elezione dei professionisti che partecipano alla società. Tale norma, peraltro, non ha reale portata innovativa riguardo alle associazioni tra professionisti, poiché già l’articolo 1 della legge 1815/39, contempla la possibilità di associazioni professionali tra esercenti professioni diverse, con la sola precisazione che i soggetti partecipi della associazione devono usare nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguita dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati. La novità introdotta dalla norma consisterebbe, quindi, nel solo fatto di consentire l’esercizio di attività professionali multidisciplinari nella forma della società di persone.
Va tuttavia rilevato che il divieto di costituzione di società professionali multidisciplinari è già stato rimosso con l’articolo 24 della legge 266/97 (c.d. legge Bersani), che, al primo comma, ha abrogato l’articolo 2 della legge 1815/39 e, al comma 2, ha tuttavia previsto che «Ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 400/88, il ministro di Grazia e giustizia, di concerto con il ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato e, per quanto di competenza, con il ministro della Sanità, fissa con proprio decreto, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i requisiti per l’esercizio delle attività di cui all’articolo 1 della legge 1815/39». L’articolo 2 del testo in esame non innova in alcun modo rispetto all’articolo 24 della precedente legge e non supera l’esigenza dell’emanazione di un regolamento di attuazione, che individui i requisiti e il contenuto della disciplina delle c.d. società professionali multidisciplinari, posto che l’articolo 24, comma 2, della precedente legge Bersani è tuttora vigente. Anzi, la nuova normativa ha un’apparente portata abrogativa che è più restrittiva della norma contenuta nell’articolo 24, comma 2, in quanto ammette società professionali multidisciplinari costituite soltanto nella forma delle società di persone.
Restano, tuttavia, attuali i problemi connessi alla mancata emanazione del regolamento governativo, sui quali si è, già in passato, espressa la giurisprudenza di merito, che, per un verso ha escluso che, in mancanza del regolamento di attuazione, possano essere costituite società professionali multidisciplinari nella forma della società di capitali, in presenza di un rinvio ad un istituto non introdotto da specifica fonte normativa e, quindi, indeterminato quanto a contenuto e non valutabile come conforme al sistema (Tribunale di Milano, decreto 27.05.1998 in Giur. It., 1999, 1012) e, per altro verso, ha ritenuto legittima la costituzione di tali società nella forma delle società di persone e, particolarmente, nella forma della società semplice (Tribunale di Milano, decreto 5 giugno 1999, in Società, 1999, pag. 984). Di conseguenza, anche gli avvocati possono partecipare a società professionali multidisciplinari nella forma della società di persone, disciplinate dal codice civile, non essendo di ostacolo il divieto, da ritenersi tuttora vigente, di esercitare attività commerciali, stabilito dall’articolo 3 dell’ordinamento professionale, perché tali società eserciterebbero una “impresa civile”, che secondo parte della giurisprudenza e della dottrina, rappresenterebbe un tertium genus rispetto a quella dell’impresa commerciale e di quella agricola.
Deve, comunque, escludersi che a tali società possano partecipare anche soggetti non esercenti attività professionale per il disposto dell’articolo 2232 Cc, che impone al prestatore d’opera di eseguire personalmente l’incarico (in tal senso, Tar Lazio, Sezione terza, 4107/00). Il principio della personalità della prestazione, posto a presidio del rapporto fiduciario tra cliente e professionista, esclude che, in difetto di un’espressa e diversa previsione normativa l’incarico professionale possa essere conferito direttamente alla società professionale, ma non esclude l’imputazione del compenso alla stessa.
Resta da chiedersi se il decreto Bersani recentemente convertito in legge incida sulla disciplina delle STP, di cui al D.Lgs 96/2001, approvato in attuazione della direttiva 98/5/CE. Ed invero, l’articolo 16, comma 1, del richiamato decreto legislativo dispone che «l’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio può essere esercitata in forma comune esclusivamente secondo il tipo della società tra professionisti, denominata nel seguito società tra avvocati». Pare, quindi, che la norma indicata si ponga come legge speciale, rispetto alla disciplina generale, escludendo che l’attività di rappresentanza e difesa giudiziale, che è oggetto di tutela costituzionale, possa essere esercitata in forma societaria diversa da quella delle STP.
Se così fosse, l’articolo 2 del decreto convertito, avendo portata generale, non potrebbe derogare la disciplina speciale e avrebbe il solo effetto di consentire l’esercizio, in forma di società, multidisciplinare della sola attività di consulenza. Quanto alle “associazioni”, sono ammesse anche associazioni temporanee, ma esse debbono essere esclusive, perché il testo in esame mantiene il divieto di partecipare a più associazioni o a più società di professionisti. In ogni caso, vi è ribadita la personale responsabilità del professionista per l’attività prestata.