Cassazione civile , sez. un., 17 febbraio 1995, n. 1712

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano



LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:


Dott. Antonio BRANCACCIO Primo Presidente
" Francesco FAVARA Pres. di Sez.
" Antonio SENSALE "
" Michele CANTILLO Consigliere
" Raffaele NUOVO "
" Renato SGROI Rel. "
" Francesco AMIRANTE "
" Vincenzo CARBONE "
" Alfio FINOCCHIARO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 6230-92 del R.G. AA.CC.,
proposto da

MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12 c-o l'Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente contro

B.D., elettivamente domiciliata in Roma,...... Luigi Esposito che la rappresenta e difende giusta delega in calce al controricorso
Controricorrente avverso la sentenza n. 238-92 della Corte d'Appello di Napoli depositata il 4.2.1992 notificata il 9.3.1992; udita nella Pubblica Udienza tenutasi il giorno 22.4.1994 la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dott. Sgroi; udito l'avvocato De Martino; udito il P.M. in persona del Dr. Di Renzo, avvocato Generale c-o la Corte Suprema di Cassazione che ha concluso per il rigetto.

 

Fatto


Il 4 marzo 1971, in Napoli, conseguenza di uno smottamento del terreno, si aprì una voragine al piano terreno di un fabbricato di proprietà di B.D., nella quale venne inghiottito E.K.; il giorno seguente alcuni tecnici dei Vigili del Fuoco, del Genio Civile e dell'Ufficio tecnico comunale concordarono la indispensabilità della demolizione dell'intero fabbricato, in quanto la sua statica era gravemente compromessa; il 6 marzo 1971 il Sindaco dispose la.... pericolo per la pubblica incolumità e per permettere il recupero della salma; tale demolizione fu subito iniziata e compiuta.

La B., con atto del 4 luglio 1972, convenne in giudizio il Comune di Napoli, il Ministero dell'interno e quello dei LL.PP. dinanzi al Tribunale di Napoli, per essere risarcita dei danni, sul presupposto della carenza di potere della P.A. di ordinare l'abbattimento.

Il Comune eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva, al pari delle due Amministrazioni statali.

La B., con altra citazione del 10 ottobre 1986, convenne in giudizio il Sindaco di Napoli, quale ufficiale di Governo, rappresentante ex lege del Ministero dell'interno, riproponendo la domanda di danni, sul presupposto che il provvedimento di demolizione era stato annullato dal giudice amministrativo.

Con sentenza 12 settembre 1988 il Tribunale di Napoli respinse la domanda, compensando le spese.

Su appello della B., nella resistenza del solo Ministero dell'interno, la Corte d'appello di Napoli, con sentenza 4 febbraio 1992, in accoglimento dell'impugnazione, condannava il Ministero al risarcimento dei danni in favore della predetta, liquidati in Lire 494.000.000 con gli interessi legali dal 4 marzo 1971 al saldo, nonché al pagamento delle spese dell'intero giudizio, osservando (per quanto interessa):

- che, non essendovi dubbio che la P.A. è tenuta al risarcimento del danno in caso di annullamento per illegittimità di un proprio atto amministrativo, anche indipendentemente dalla colpa, non restava che accogliere la domanda;

- che la C.T.U. aveva accertato il valore del fabbricato demolito in lire 59.840.000 alla data del 24 novembre 1973; per effetto della rivalutazione fino ad oggi, tale importo ascendeva Lire 494.000.000; che gli interessi legali erano dovuti dal giorno del fatto; che conseguivano le spese di entrambi i gradi.

Avverso la suddetta sentenza il Ministero dell'Interno ha proposto ricorso per cassazione.

La B. ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.

La causa, inizialmente assegnata alla I sezione civile, a seguito di ordinanza del 13 ottobre 1993, è stata rimessa alle Sezioni Unite, per la soluzione del contrasto di giurisprudenza inerente al terzo motivo.

 


Diritto


Col primo motivo, il Ministero dell'interno denuncia la violazione dell'art. 1O0 c.p.c. (sotto il profilo della legittimazione passiva) e dell'art. 2043 c.c., nonché omessa motivazione su un punto decisivo (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.), osservando che il fatto dannoso de quo non era imputabile all'Amministrazione Statale, in quanto non era eziologicamente connesso al provvedimento contingibile ed urgente adottato dal Sindaco di Napoli quale Ufficiale di Governo, che è stato poi annullato dal giudice amministrativo, in quanto non erano derivati dall'ordinanza sindacale del 9 marzo 1991, bensì dall'attività materiale posta in essere dal Comune, prima ancora che l'ordinanza fosse adottata (e cioè dal 6 marzo 1971), come risultava dalla decisione del Consiglio di Stato del 1981 n. 99, che aveva annullato il provvedimento.
Quindi, l'attività di demolizione che aveva provocato il danno era del tutto svincolata dall'ordinanza del Sindaco quale Ufficiale di Governo, essendo stata posta in essere dagli uffici comunali indipendentemente dall'ordinanza e prima ancora della sua adozione.

Il motivo è infondato, perché: a) la frase della sentenza del Consiglio di Stato che è stata riportata nel ricorso non ha il significato che le attribuisce la difesa del ricorrente, perché vuole rimarcare la tardività della notifica dell'ordinanza (avvenuta effettivamente il 9 marzo 1971) alla B., mentre dalla sentenza impugnata risulta che l'ordinanza fu emessa il giorno dopo il fatto (rectius: il 6 marzo) prima dell'inizio dei lavori, o contestualmente ad essi; b) è ovvio che il Sindaco, anche nella qualità di Ufficiale di Governo si avvale dell'organizzazione degli Uffici Comunali, ma (salvi casi peculiari che la giurisprudenza ha già individuato, come quando il Comune tragga vantaggio dal provvedimento; casi in cui vi può essere corresponsabilità del Comune stesso) non per questo non impegna la responsabilità del Ministero dell'interno, per l'atto che deve definirsi illecito, quando è annullato in sede amministrativa, in concorso degli altri elementi di cui all'art. 2043 c.c. (che qui non vengono contestati) (cfr. Sez. un. 18 novembre 1992 n. 12316).

Con il secondo motivo, il Ministero denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.), censurando la sentenza nella parte in cui ha recepito acriticamente la C.T., mentre sarebbe stata doverosa una confutazione dei rilievi dell'Amministrazione, non essendo stata fornita alcuna motivazione che valesse a chiarire come potesse essere quantificato e valutato in buone condizioni e con salde fondazioni un edificio - costruito 40 anni prima - appena interessato da un evento di crollo, nei cui sotterranei erano state rinvenute vere e proprie voragini.

Il motivo è inammissibile. Con esso ci si limita a isolare una frase della C.T.U., senza dimostrarne il rilievo, ai fini della sua valutazione e della pretesa incoerenza delle conclusioni rispetto a quella frase. In altri termini, si pretende inammissibilmente che la Corte di Cassazione esamini direttamente la C.T.U., recepita dal giudice, mentre la critica avrebbe dovuto essere mossa sul piano dei criteri logici e della motivazione completamente riferiti, per essere qui apprezzata.

Col terzo motivo, il Ministero denuncia la violazione e-o falsa applicazione degli artt. 1219 e 1224 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), osservando che il criterio di calcolo degli interessi legali adottato dalla Corte d'appello (e cioè sulla somma rivalutata fin dal giorno dell'evento dannoso) è erroneo e determina un ingiustificato arricchimento, perché la misura degli interessi deve essere rapportata al valore iniziale del bene (e cioè a quello reale che aveva alla data dell'illecito) ed ai successivi, eventuali mutamenti del potere di acquisto, determinati anno per anno, secondo gli indici medi di svalutazione, cioè fino al momento della decisione.

Nel motivo sono sinteticamente espresse tre censure, tutte fondate.

Si premette che, in relazione ai limiti dell'impugnazione, costituiscono punti fermi i seguenti: a) che la condanna ha per oggetto il risarcimento del danno per la perdita di un bene (costruzione abbattuta), mediante il pagamento di una somma di denaro e cioè "per equivalente"; b) che la liquidazione del danno costituisce un credito di valore, rivalutabile fino alla data della decisione (che, nella specie, in relazione all'accoglimento del motivo (v. C. 12839 e 11552-92) sarà quella in sede di rinvio), e che con tale rivalutazione concorrono gli interessi legali fin dal giorno dell'evento dannoso.

Nella specie, la Corte d'appello ha determinato - sulla scorta della C.T.U. - il valore del bene, alla data del 24 novembre 1973, in lire 54.250.000; vi ha aggiunto Lire 5.594.000 per lucro cessante (perdita dei fitti dal marzo 71 al 24 novembre 1973); ed ha rivalutato la somma complessiva (lire 59.840.000) alla data della decisione (18 dicembre 1991) a lire 494.000.000; ha statuito che gli interessi legali (fino al saldo) fossero computati dal 4 marzo 1971 sulla suddetta somma complessiva rivalutata (v. anche il controricorso).

Nel suddetto calcolo sono contenuti i tre errori denunciati, i primi due alla stregua della giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte già all'epoca di quella decisione; e l'ultimo in relazione alla soluzione del contrasto che le Sezioni Unite intendono adottare.

1) Il primo errore è quello di avere rapportato il valore del bene perduto non alla data dell'illecito istantaneo, ma ad una data successiva (cfr. Sez. Un. 26 febbraio 1992 n. 2383; Sez. I, 18 luglio 1989 n. 3352, in motivazione; 12 aprile 1990 n. 3195).

Esattamente, il Ministero sostiene che - invece - bisogna fissare il valore iniziale del bene, al momento dell'illecito istantaneo, e poi procedere alla rivalutazione della somma liquidata, dato che non si applica il principio nominalistico (art. 1277 c.c.), perché l'oggetto della prestazione consiste nel valore economico del bene distrutto illecitamente, diverso dal denaro (Cass. 4 novembre 1992 n. 11968); denaro che ha funzione succedanea dell'utilità originaria, alla quale deve essere equivalente in termini di poteri di acquisto.

Gli effetti della svalutazione monetaria - fra il momento della produzione del danno ed il momento successivo della sua liquidazione - sono addebitati all'obbligato non quale effetto della sua responsabilità (sub specie di "ritardo" e di mora), ma semplicemente perché nel lasso di tempo intercorrente fra il sorgere del credito (quale effetto del fatto dannoso) ed il momento della sua liquidazione, l'espressione monetaria del bene deteriorato o distrutto è mutata, e cioè per adeguare la prestazione dovuta (somma di denaro, nel caso in cui non si possa adottare il risarcimento in forma specifica, ex art. 2058 primo comma, ma quella per equivalente, ai sensi del secondo comma) all'effettivo valore da reintegrare.

L'Amministrazione ricorrente non contesta che quella di cui è causa sia un'obbligazione di valore, ma il Collegio - comunque - osserva che si tratta di una categoria che il diritto giurisprudenziale ha creato da alcuni decenni, su cui non è possibile discutere, se non allo scopo di stabilirne i confini, e cioè di catalogare l'una o l'altra obbligazione in quella categoria, in relazione a qualche caso controverso. Controversia che non è mai esistita, in ordine al debito da risarcimento del danno per fatto illecito che si concreta nella distruzione di un bene o nella sua appropriazione da parte dell'autore dell'illecito; esiste invece qualche voce dissonante (per esempio, C. 4 febbraio 1994 n. 1161) per i casi in cui il danno cagionato dall'illecito consiste nella perdita di una somma di denaro.

Occorre ribadire che la rivalutazione non corrisponde affatto alla funzione esplicata, nel quadro dei debiti di valuta, in rapporto al "maggior danno" di cui all'art. 1224 secondo comma c.c. e cioè a quella di risarcire il danno eccedente gli interessi legali, dovuti dal giorno della mora. L'art. 1224 non è richiamato dall'art. 2056 c.c. La mora, che pure è regolata anche nelle obbligazioni da fatto illecito, come mora automatica (art. 1219, comma 2, n. 1) non ha niente a che vedere - in dette obbligazioni - con la rivalutazione monetaria, la quale è dovuta non come effetto di essa, ma come effetto della natura del credito di valore, che è di per sè sottratto al rischio della svalutazione, poiché il suo importo in moneta deve essere determinato al momento della liquidazione, in corrispondenza ad un valore economico reale. Di tale caratteristica è consapevole la giurisprudenza, che ha elaborato un serie di regole processuali peculiari, estranee al danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie: la rivalutazione deve essere accordata anche d'ufficio ed in grado d'appello e di rinvio (per tutte: Cass. 1 dicembre 1992 n. 12839; 6 dicembre 1993 n. 12054, pure in caso di valutazione equitativa).

2 ) Il secondo errore della sentenza impugnata è quello di avere aggiunto (come ammette la resistente) al valore del bene l'importo dei fitti perduti, per circa due anni e dieci mesi dopo l'illecito, ed in coincidenza con un periodo per il quale sono stati attribuiti anche gli interessi legali sulla somma capitale, operando in tal modo una duplicazione illegittima.

Il Ministero deduce - esattamente - che deve aversi riguardo soltanto al valore del bene (oltre agli interessi dal fatto; vedi infra).

Invero, anche secondo la giurisprudenza tradizionale il mancato godimento di un bene, protrattosi per una pluralità di anni, è un credito risarcitorio per lucro cessante che matura anno per anno ed è suscettibile di rivalutazione monetaria, con attribuzione degli interessi sulla somma rivalutata, solo a partire da ciascuna annualità (Sez. un., 23 novembre 1985 n. 5814). Tale modalità di attribuzione del lucro cessante si giustifica quando il bene è stato sottratto illecitamente al godimento del titolare, pur esistendo in rerum natura; se il bene è distrutto e non può essere restituito, il risarcimento è necessariamente tradotto in una somma di denaro (che corrisponde al danno emergente), mentre il lucro cessante può aversi (a parte la prova di specifici mancati guadagni, da darsi caso per caso, e del tutto estranei a questa causa) solo per il ritardo nella corresponsione della somma. Non possono quindi cumularsi, con gli interessi legali dalla data del fatto, i "frutti" (canoni di locazione) del bene rimpiazzato dalla somma di denaro. In altri termini: i fitti perduti (accordati dalla sentenza impugnata) non sono altro che un modo di valutazione dello stesso danno (lucro cessante) prodotto dalla perdita del bene, rispetto agli interessi legali sulla somma liquidata come equivalente del bene perduto, e pertanto non possono cumularsi, per lo stesso periodo di tempo.

3 ) Il terzo problema riguarda il calcolo degli interessi.

A parte il fatto che detti interessi (per quanto detto sub 1) e 2) dovranno rapportarsi soltanto al valore del bene perduto, con esclusione dell'importo degli affitti, si osserva che la Corte d'appello ha seguito l'orientamento (allora assolutamente prevalente: cfr. fra le molte conformi, Cass. 13 novembre 1989 n. 4791) secondo cui, in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la rivalutazione della somma liquidata e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono due funzioni diverse, mirando la prima alla reintegrazione del danneggiato nella situazione patrimoniale anteriore all'illecito, mentre gli interessi hanno natura compensativa, con la conseguenza che questi ultimi sono compatibili con la rivalutazione e vanno corrisposti sulla somma rivalutata con decorrenza dal giorno in cui si è verificato l'evento dannoso.

A parte la critica alla categoria giurisprudenziale degli interessi "compensativi", si è da più parti osservato che, con la suddetta forma di liquidazione, il creditore riceve di più del danno effettivamente subito, perché anche gli interessi (concessi nella misura legale, che ai sensi dell'art. 1 legge n. 353 del 1990 è ormai raddoppiata, rispetto alla misura esistente all'epoca in cui quella giurisprudenza si è formata) vengono rivalutati, in ragione del deprezzamento del valore intrinseco della moneta, di guisa che anche gli interessi vengono a ricadere nella categoria dei debiti di valore, senza alcuna base legale (il debito di interessi è, per sua natura, debito pecuniario, e cioè stabilito in misura fissa ed estinto con la entità di moneta corrispondente a detta misura). Si avrebbe una sorta di anatocismo, all'infuori dei casi previsti dall'art. 1283 (cfr. Cass., sez. un., 10 ottobre 1992 n. 11065).

In accoglimento parziale di dette critiche, si sono avute pronuncie secondo cui gli interessi legali vanno calcolati non sulla somma risultante dalla rivalutazione monetaria della liquidazione del credito, ma sul capitale originario (valore del bene al momento dell'illecito che lo ha sottratto al patrimonio del creditore), peraltro rivalutato anno per anno, secondo gli indici ISTAT (Cass. 20 giugno 1990 n. 6209; 7 aprile 1994, n. 3290).

Il Collegio osserva che, in effetti, si impone una revisione del tradizionale orientamento, pur nel quadro della conservazione del principio della risarcibilità dei due tipi di danno: il valore del bene perduto (danno emergente) da un lato, ed il corrispettivo del mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario del bene predetto (coesistenza che non è contestata dal ricorrente, di guisa che essa è riaffermata in questa sede soltanto per completezza di discorso). L'art. 2056 richiama l'art. 1223, che - a sua volta - riguarda il risarcimento del danno "per l'inadempimento o per il ritardo" con una formula che ben si adatta anche al debito da risarcimento del danno da fatto illecito.

Questo può essere liquidato in forma specifica, ma se è liquidato per equivalente, deve comprendere sia l'equivalente del bene perduto (e, quindi, la rivalutazione monetaria della sua espressione monetaria al momento del fatto), sia l'equivalente del mancato godimento di quel bene e del suo controvalore monetario, per tutto il tempo che intercorre fra il fatto e la liquidazione.

La giurisprudenza ha adottato la categoria degli interessi compensativi (allargando la fattispecie regolata dall'art. 1499 c.c.) che prescindono dalla mora e dai presupposti di liquidità ed esigibilità di cui all'art. 1282 c.c.

Invero, nell'ambito dell'art. 1499 c.c., nel giuoco fra arricchimento di una parte e depauperamento dell'altra parte, si valuta la cosa che è oggetto della vendita, e cioè si ha riguardo all'appropriazione dei frutti e proventi da parte del compratore che non ha ancora pagato il prezzo ed al corrispondente depauperamento a carico di chi non ha ricevuto ancora il prezzo, pur avendo consegnato la cosa, il che genera appunto l'obbligazione degli interessi (Cass. 23 marzo 1991 n. 3184).

Può quindi dubitarsi dell'esattezza della qualifica degli interessi da ritardo nell'adempimento dell'obbligazione di risarcimento del danno extracontrattuale, come compensativi, dal momento che la cosa potrebbe essere distrutta (si veda il caso di specie) e quindi i suo proventi potrebbero non entrare nel patrimonio del danneggiante. Tuttavia, si tratta di un principio generale di equità che impone di compensare con l'attribuzione degli interessi il conseguimento, in ritardo rispetto al sorgere del credito, della disponibilità di una somma di denaro; somma che arricchisce il patrimonio del debitore che non paga subito, con correlativo lucro cessante di chi dovrebbe ottenerlo e non ne ha la disponibilità.
L'art. 1219 comma 2 n. 1, che regola la mora ex re nelle obbligazioni da fatto illecito rende avvertiti che il suddetto ritardo va "compensato", così come viene risarcito il danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie (ai sensi dell'art. 1224, che in questa materia non può applicarsi, senza peraltro precludere la ricerca di meccanismi analoghi di reintegrazione del danno da ritardo).

L'equivalente pecuniario (nei debiti di valore) soddisfa il credito per il bene perduto, ma non anche il mancato godimento delle utilità che avrebbe potuto dare il bene, se fosse stato rimpiazzato immediatamente con una somma di denaro equivalente. Detto mancato godimento, nel tempo, concreta un danno da ritardo; danno che deve essere provato, e - salvo casi particolari, oggetto di specifica prova - non consiste nei frutti del bene, e cioè in un valore che deve essere liquidato in moneta rivalutata, ma soltanto nei frutti della somma di denaro equivalente al valore del bene al momento del fatto, di cui il debitore ha ritardato il pagamento. Invero, il ritardo a carico del debitore deve rapportarsi al momento in cui il controvalore avrebbe dovuto essere spontaneamente pagato. La prova, in proposito, può essere data anche mediante presunzioni semplici e facendo ricorso all'art. 1226 c.c. (criteri equitativi) e, quindi, in questo ambito di equo apprezzamento (art. 2056 c.c.) il lucro cessante può essere liquidato col criterio degli interessi, senza dovere necessariamente fare ricorso al tasso degli interessi legali (Cass. 1 dicembre 1992 n. 12839).
Nell'ambito della suddetta valutazione equitativa può tenersi conto, soprattutto quando l'intervallo di tempo fra l'illecito ed il suo risarcimento è cospicuo e l'inflazione è ragguardevole, del graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, calcolando gli interessi (per esempio, anno per anno) sul valore della somma via via rivalutata nell'arco del suddetto ritardo; oppure calcolando indici medi di rivalutazione.

Quel che deve escludersi è che la base di calcolo dei suddetti interessi possa essere quella della somma rivalutata al momento della liquidazione, se gli interessi vengono fatti decorrere - come consente il sistema - dal momento del fatto illecito, perché con tali modalità si attribuirebbe al creditore un valore a cui egli non ha diritto; invero, gli interessi non costituiscono un debito di valore, ma un criterio di commisurazione del danno da ritardato conseguimento di una somma di denaro che, all'epoca del fatto, era - per definizione - non rivalutata.

Col criterio tradizionale (attribuzione degli interessi legali dalla data del fatto, sulla somma rivalutata al momento della liquidazione) si assegnerebbe al debito di valore costituito dal risarcimento del danno il ruolo di fonte dell'obbligazione di interessi, ai sensi dell'art. 1173 c.c., e cioè il debito di interessi sarebbe un accessorio del debito principale (risarcitorio).

Ciò non corrisponde al sistema. Il fatto illecito obbliga, in modo unitario, al risarcimento del danno, che è dovuto dal momento del fatto stesso (art. 1219 comma 2 n. 1 coc.), nel senso che l'autore di esso è in mora (non essendo sancita la regola "in illiquidis non fit mora"); e, tuttavia, non è applicabile l'art. 1224 c.c., e cioè dalla situazione di mora non scaturisce il diritto agli interessi legali moratori, come avviene per le obbligazioni originariamente pecuniarie. Si deve fare ricorso ai criteri dettati dall'art. 2056 e quindi il debitore in mora deve risarcire il danno subito dal creditore per il ritardo col quale ottiene la disponibilità dell'equivalente pecuniario del debito di valore.

Non si tratta di danno presunto per legge (art. 1224 primo comma), ma di danno che deve essere allegato e provato, con tutti i mezzi, anche presuntivi e mediante l'utilizzo di criteri equitativi (secondo comma dell'art. 2056) Tra detti criteri può utilizzarsi quello più semplice degli interessi ad un tasso che non deve essere necessariamente quello legale, perché l'equità potrebbe far ritenere eccessivo un interesse del 10%, quale è quello attuale. Non può condividersi la tesi che, essendo il danno un tutto unitario, la sua liquidazione tramite la tecnica propria dei debiti di valore esaurirebbe ogni sua componente (anche tenendo conto della più recente giurisprudenza secondo cui, ai sensi dell'art. 1224 comma 2, non è consentito il cumulo degli interessi e della rivalutazione monetaria). Invero, come si è già rilevato, il diritto positivo, nel sancire la responsabilità del debitore tanto per l'inadempimento che per il ritardo, stabilisce che non è integrale risarcimento l'attribuzione della somma corrispondente al danno emergente, dovendo essere risarcito il lucro cessante, rappresentato dal mancato godimento della cosa perduta (o danneggiata) o del suo equivalente in denaro.

D'altra parte, è pure vero che (non applicandosi l'automatismo di cui al primo comma dell'art. 1224) l'attribuzione degli interessi quale lucro cessante, costituisce solo una modalità di liquidazione equitativa (salva prova diversa) e non un'obbligazione accessoria di un'obbligazione di valore. Se quest'ultima potesse essere attribuita in forma specifica (art. 2058 c.c.), il lucro cessante si potrebbe individuare nella mancata percezione dei vantaggi derivanti dal possesso del bene; vantaggi che, a loro volta, si potrebbero distinguere in frutti naturali o frutti civili.

Soltanto nel primo caso l'obbligazione risarcitoria correlativa alla loro mancata percezione, avendo ad oggetto una res diversa dal denaro, può essere rivalutata (cfr. Cass. n. 2082-1962; n. 2783-71) secondo la tecnica propria dei crediti di valore. Nel secondo caso, detta obbligazione - avendo fin dall'origine per oggetto una somma di denaro - non corrisponde ad un credito di valore e non può rivalutarsi.

Pertanto, nel caso di risarcimento per equivalente, e cioè nel caso in cui unà somma di denaro sostituisce il bene perduto o danneggiato, il lucro cessante (costituito dalla perdita della possibilità di far fruttare la somma, se fosse stata pagata subito) si può liquidare sotto la forma di interessi, ad un tasso che non è necessariamente quello legale, ma che - una volta fissato - non è suscettibile di rivalutazione, perché fin dall'origine essi costituiscono una somma di denaro, e cioè un debito di valuta (Cass. n. 1423-77).

Resta salva la possibilità di dare la prova concreta di un danno diverso e maggiore.

Gli effetti della rivalutazione potranno aversi solo indirettamente, e cioè tramite il riferimento al capitale che, nel tempo, si incrementa nominalmente, per l'applicazione degli indici periodici di svalutazione (periodicità da fissarsi con apprezzamento di tutte le circostanze del caso).

Il giudice potrà tener conto, in via equitativa, dei successivi aumenti nominali del capitale, corrispondenti alla graduale progressione della svalutazione. Sulla somma finale liquidata (che si converte in debito di valuta) saranno dovuti i normali interessi legali(ex art:. 1282 c.c.).
A questa tesi è stato, da tempo, opposto che la base del conteggio degli interessi rapportata ai diversi periodi intercorrenti fra l'illecito e la sua liquidazione sarebbe costituita da somme che il debitore non è obbligato a versare, perché sarebbero determinate in via puramente teorica e fittizia, al solo fine di calcolare gli interessi. La misurazione in moneta del danno (come debito di valore) avviene soltanto con la liquidazione finale e quelle "fittizie" intermedie non possono costituire la base di calcolo del lucro cessante, perché si avrebbe l'incongruenza di far decorrere interessi su una somma di denaro non ancora determinata.
Il Collegio ritiene che si tratti di una critica basata su un eccessivo formalismo. Il problema pratico da risolvere è quello di ristabilire - a favore del creditore danneggiato - quella posizione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato, senza l'illecito e senza che fosse stato frapposto ritardo nel risarcimento. Si tratta, pertanto, di due danni diversi, che, in linea di principio, vanno provati entrambi; ma il sistema conosce tecniche probatorie e di liquidazione di carattere presuntivo e-o "tipizzate", purché siano motivate con riguardo alla natura del danno, alla qualità del danneggiato, all'importo della somma liquidata a titolo di capitale, e ad ogni altra circostanza concreta. Non vi è dubbio che, nell'ambito del secondo tipo di danno, rileva il mancato guadagno derivante dal mancato godimento de! bene o del suo equivalente in denaro: utilizzazione economica che ha come componente essenziale il tempo e cioè l'intervallo fra il momento del danno e la sua liquidazione, nel corso del quale il creditore può dare (ed il giudice può riconoscere) la prova della possibilità di sottrarre l'impiego del denaro dagli effetti negativi della svalutazione monetaria. Se questa prova non fosse data o il giudice la disconosca (per esempio, per effetto dell'andamento dei tassi di impiego del denaro, correnti nel periodo considerato), potrebbe essere attribuito l'interesse fissato soltanto e sempre sulla somma corrispondente al valore del bene al momento del fatto illecito.

La sentenza impugnata, che ha rivaluto sic et simpliciter gli interessi legali, dal momento del fatto, va cassata; e la causa va rimessa per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Napoli, che - oltre che applicare i principi già enunciati supra, sub 1) e sub 2) - applicherà il seguente principio di diritto:

"In tema di risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale, se la liquidazione viene effettuata per equivalente, e cioè con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all'epoca del fatto illecito, espresso poi in termini monetari che tengano conto della svalutazione monetaria intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche in sede di rinvio), è dovuto inoltre il danno da ritardo e cioè il lucro cessante provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma, che deve essere provato dal creditore.

La prova può essere data e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi e quindi anche mediante l'attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive inerenti alla prova del pregiudizio subito per il mancato godimento - nel tempo - del bene o del suo equivalente in denaro.

 
Se il giudice adotta, come criterio di risarcimento del danno da ritardato adempimento, quello degli interessi, fissandone il tasso, mentre è escluso che gli interessi possano essere calcolati dalla data dell'illecito sulla somma liquidata per il capitale, rivalutata definitivamente, è consentito invece calcolare gli interessi con riferimento ai singoli momenti (da determinarsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma, equivalente al bene perduto, si incrementa nominalmente, in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio".
Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

 

P.Q.M

La Corte di Cassazione a sezioni unite rigetta i primi due motivi del ricorso; ne accoglie il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso a Roma il 22 aprile 1994.


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